Qualche tempo fa mi è capitato di vedere il documentario di Yariv Mozer intitolato “The invisible man” sulla vita degli omosessuali palestinesi che hanno trovato rifugio in Israele. Trovandomi in Israele per ragioni personali ho chiesto alle mie colleghe israeliane di aiutarmi a capire meglio il problema esposto proprio da quel documentario, cioè sulla situazione che vivono queste persone, una situazione sospesa in un limbo situato tra l’illegalità clandestina tollerata e il rischio sempre incombente di essere espulsi da Israele verso la Cisgiordania dove per loro il rischio è quello di essere uccisi.
Così siamo andate nei luoghi frequentati abitualmente dagli omosessuali palestinesi, i luoghi dove queste persone arrivano anche a prostituirsi pur di riuscire a mantenersi in maniera sufficientemente adeguata in Israele. Ho scoperto così un mondo sommerso fatto purtroppo anche di abusi ma anche di una grande solidarietà da parte degli israeliani verso queste persone a cui manca del tutto uno status.
Il viaggio non può che partire da Shenkin Street, quella cioè che viene considerata a tutti gli effetti la strada gay di Tel Aviv. Qui ci sono locali, negozi, c’è veramente di tutto. Ed è in un locale dove, con il prezioso aiuto di Aaron, un ragazzo gay israeliano, incontriamo il primo omosessuale palestinese che dopo le prime titubanze si offre di farci da guida nel mondo sommerso dei gay palestinesi in Israele. E’ lui che ci spiega come alcuni ragazzi gay palestinesi siano costretti a prostituirsi per potersi mantenere. La zona dove si possono incontrare è quella adiacente all’area detta della “stazione dei bus”. Qui incontriamo Maahir, un giovanissimo ragazzo palestinese che afferma di avere 20 anni ma che al massimo ne avrà 16. Maahir è fuggito da un villaggio vicino a Jenin dove a causa della sua omosessualità non solo veniva abusato sessualmente ma rischiava ogni giorno di essere arrestato e condannato a morte. Gli abusi sessuali subiti da questo ragazzo sono davvero impressionanti e ci disegnano un quadro fortemente ipocrita della società araba dove, se da un lato l’omosessualità viene punita con la morte, quella stessa regola viene largamente usata come arma di ricatto per abusare sessualmente degli omosessuali. Maahir, che vive in un monolocale insieme ad altri ragazzi gay palestinesi, è costretto a prostituirsi ma non si lamenta. La polizia israeliana tollera ampiamente lui e i suoi amici ben sapendo che una qualsiasi azione legale contro di loro sarebbe la fine in quanto vorrebbe dire la loro espulsione. Gli diciamo che tempo fa abbiamo letto su un giornale israeliano che la polizia chiederebbe una sorta di pizzo per lasciarli in pace. Maahir nega nel modo più assoluto, perlomeno nel suo caso e ci dice di non aver mai sentito nessuno parlare di questo. Di diverso avviso è invece Baasim, un altro ragazzo gay palestinese rifugiato in Israele che ci racconta che invece a lui è capitato qualche volta che dei poliziotti gli chiedessero una sorta di tangente per lasciarlo in pace. Ma precisa che sono casi molto isolati e che nella maggioranza dei casi la polizia israeliana è molto comprensiva.
Il fatto di vederci parlare con Maahir e Baasim spinge molti altri ragazzi ad uscire allo scoperto, così ci rendiamo conto che i ragazzi gay palestinesi rifugiati in Israele sono davvero tanti. Ci raccontano tutti storie molto simili, vite fatte di violenze, di soprusi, del rischio di essere linciati dai loro stessi genitori. Ne viene fuori una specie di conferenza “on the road” dalla quale emerge il loro principale problema, cioè avere una sorta di riconoscimento per uscire da quel limbo dove si trovano.
Il fatto è che, sebbene ampiamente tollerati,i ragazzi gay palestinesi (qualche centinaio) non riescono ad ottenere lo status di rifugiato e in pratica ogni giorno rischiano seriamente di essere rispediti a casa. E’ una piccola pecca israeliana che andrebbe sanata. In sostanza Israele fornisce a questi ragazzi (ma ci sono anche alcune ragazze) protezione ma non assistenza e riconoscimento. Non li espelle perché sa che rischierebbero moltissimo, ma non ufficializza la loro presenza. Alcuni di loro convivono addirittura con compagni israeliani ma lo fanno in maniera del tutto clandestina.
Chiaramente mi rendo conto che i problemi che deve affrontare Israele sono ben altri e che già il fatto che i gay palestinesi possano trovare un rifugio in Israele è qualcosa di estremamente positivo per loro. Mi rendo conto anche che se la cosa venisse in qualche modo ufficializzata i terroristi palestinesi potrebbero approfittarne per infiltrarsi in Israele e quindi ne potrebbe scaturire un serio problema di sicurezza, ma ritengo che si possa trovare un compromesso tra la tutela dei Diritti di queste persone e la doverosa tutela della sicurezza di Israele.
Oggettivamente al momento non saprei quale possa essere questo compromesso, non è facile trovarlo specie in un momento difficile come questo (e posso assicurare che in Israele il momento difficile si percepisce con chiarezza specie dopo il rapimento dei tre ragazzi). Tuttavia penso che una democrazia come quella israeliana sia ampiamente in grado di trovare un modo di tutelare legalmente queste poche centinaia di persone. Per questo abbiamo deciso di lavoraci un po’ su, magari con l’aiuto fondamentale delle associazioni LGBT israeliane. Ne riparleremo quindi molto presto.
Una piccola nota a margine: francamente non mi spiego come alcune associazioni LGBT europee possano chiedere il boicottaggio di Israele, cioè dell’unico Stato in Medio Oriente dove una persona omosessuale è libera di dichiararsi tale e l’unico Stato che accoglie, seppure con le sue piccole pecche, quegli omosessuali che, perseguitati nei loro paesi d’origine, trovano in Israele una piccola isola di salvezza.
[glyphicon type=”user”] Articolo scritto da Paola P.
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