In occidente se ne parla poco, ma quello che sta avvenendo in Sudan potrebbe sconquassare il già fragile equilibrio in Nord Africa e nell’Africa Centrale. Da diversi mesi il popolo sudanese scende in piazza per protestare contro il regime di Omar al-Bashir e contro la decisone del regime stesso di alzare i prezzi di molti beni, primo tra tutti quello della benzina. La reazione del regime è stata violentissima: centinaia di morti, migliaia di feriti e di giovani arrestati.
Molti analisti si sono affrettati a parlare di una “nuova primavera araba” in Sudan. In realtà in Sudan si scontrano due poteri fondamentalisti che poco hanno a che fare con la democratizzazione, quello dell’attuale Presidente, Omar al-Bashir, e quello del suo storico avversario, Hassan al-Turabi.
Il primo è un criminale di guerra riconosciuto tanto da meritarsi un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra da parte del Tribunale Penale Internazionale (TPI), il secondo è un islamista estremista, vicinissimo alla Fratellanza Musulmana, amico personale di Osama Bin Laden, fautore della Jihad globale e fortemente anti-cristiano, un uomo che nel corso degli anni ha cercato più volte di deporre Bashir e che per questo è entrato e uscito continuamente di prigione. Fortemente contrario alla pace con il Sud Sudan e alla sua separazione, Hassan al-Turabi sta sfruttando la debolezza del regime derivata proprio da quella separazione (i 2/3 del petrolio sudanese sono in Sud Sudan) per dare il colpo di grazia a Omar al-Bashir.
Dal canto suo il Presidente/dittatore, Omar al-Bashir, ha fatto di tutto per peggiorare la situazione. Persa la guerra con il Sud Sudan cristiano, ha dovuto accettare la sua separazione e con essa la perdita dei più grandi giacimenti petroliferi. Nel contempo ha destinato i un quarto del PIL del Sudan alle spese militari (in Sudan ci sono almeno tre guerre più o meno striscianti) a scapito del sociale. Così si è trovato ben presto in difficoltà economiche con i militari che per proseguire i conflitti interni chiedevano sempre più soldi. A questo si è unito l’isolamento internazionale dovuto alla sua incriminazione, un isolamento rotto solamente dall’alleanza con l’Iran e da una serie di accordi con i Paesi del Golfo che però gli preferiscono Turabi.
E sono proprio i Paesi del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in testa, a spingere e finanziare la ribellione in Sudan. I regni arabi non hanno gradito l’alleanza con l’Iran e la separazione del Sud Sudan cristiano, per questo stanno finanziando a grandi mani il partito di Hassan al-Turabi.
La situazione attuale
Come già detto, da diversi mesi la gente sudanese ha iniziato a scendere in piazza e negli ultimi tempi queste manifestazioni sono diventate più frequenti e più consistenti in termini numerici. La reazione dell’esercito è stata violentissima ma questo non ha scoraggiato i manifestanti che anche nei giorni scorsi hanno invaso le strade di Khartoum per chiedere le dimissioni del Presidente Bashir. Il risultato è stato quello di una strage e di centinaia di arresti. Ma il regime sudanese non è mai stato così in bilico. Il Qatar ha destinato una cifra consistente (si parla di un miliardo di dollari) a favore del movimento anti-Bashir e delle famiglie delle vittime e di solito quando in Qatar si decide la caduta di un regime questo avviene (fa eccezione solo la Siria per l’intervento iraniano). Ed è proprio all’Iran che si sarebbe rivolto Omar al-Bashir per avere supporto. In ballo ci sono almeno tre fabbriche di armi iraniane nei pressi di Khartoum e le vie che attraversando il deserto sudanese riforniscono di armi la Striscia di Gaza. Il territorio sudanese è quindi diventato di fatto il nuovo campo di battaglia della guerra tra sunniti e sciiti, tra l’Iran sciita e i Paesi del Golfo sunniti. In tutto questo il Sud Sudan cristiano resta a guardare con apprensione visto che per esportare il suo petrolio ha bisogno degli oleodotti sudanesi e che ancora non è stata risolta l’annosa questione di Abjei che rischia di debordare in una nuova guerra.
Quello che risulta incomprensibile è la sostanziale immobilità della comunità internazione di fronte al precipitare della situazione in Sudan, come se gli esempi degli ultimi anni non abbiano insegnato niente. Il Paese è sull’orlo di una devastante guerra civile che si andrebbe a unire ai conflitti ancora in corso in Darfur e nei Monti Nuba. Se ciò avvenisse le conseguenze per tutta l’area sarebbero devastanti. Eppure l’Europa non ha nemmeno messo in calendario una semplice riunione sul Sudan, come se quanto avvenisse a Khartoum non riguardasse gli interessi europei. C’è davvero da chiedersi se a Bruxelles ci siano teste pensanti in grado di andare oltre l’ininfluente questione palestinese che sembra assorbire tutti gli sforzi delle diplomazie europee.
Claudia Colombo
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