La Jihad della porta accanto. Una riflessione su immigrazione e integrazione

23 Agosto 2014

La notizia che migliaia di europei combattono nelle file del ISIS non dovrebbe stupirci più di tanto, o quantomeno non dovrebbe stupire chi da tempo va dicendo che gli immigrati di religione islamica, anche se nati e cresciuti in Europa, non hanno minimamente in testa il concetto di integrazione ma, al contrario, quello della assimilazione nostra alla loro cultura, quello dell’assoggettamento .

In tempi non sospetti fu Oriana Fallaci a lanciare l’allarme quando ebbe il coraggio di parlare di Eurabia. Oggi quelle parole della Fallaci sui fondamentalisti islamici rimbombano dentro di noi come una profezia:

Perché loro [i fondamentalisti islamici] hanno qualche cosa che noi non abbiamo ed è la passione. Hanno la fede e la passione. Nel male, in negativo, ma l’hanno [cit. Oriana Fallaci].

Ecco, come è stato possibile che ragazzi nati e cresciuti in Europa e in occidente siano diventati fondamentalisti islamici quando nemmeno i loro genitori lo erano? Come è stato possibile che abbiano preso questa “passione” come la definisce la Fallaci? Su questo dovremmo riflettere come dovremmo riflettere sul pericolo che rappresenta la cosiddetta “politica della accoglienza”, una politica senza alcuna regola, senza alcun filtro, una politica illusoria che vede ancora nella integrazione e nelle promesse di una vita migliore per gli immigrati il suo cavallo di battaglia. Cosa succede quando quella promessa di una vita migliore non si avvera? Cosa succede quando l’assistenzialismo finisce? Cosa succede quando l’integrazione fallisce?

Cerchiamo di non essere ipocriti, cerchiamo cioè di non vedere in queste parole un attacco a tutti gli immigrati o, peggio, un ragionamento razzista o islamofobo. Si sta solo cercando di ragionare su fatti concreti. Ed è un fatto concreto che moltissimi degli immigrati islamici, anche di seconda e terza generazione, si siano dedicati al fondamentalismo infischiandosene dello stile di vita dove teoricamente sono cresciuti. E’ un dato di fatto che molti di quelli che si sono dati al fondamentalismo lo hanno fatto a seguito di ragioni sociali derivanti direttamente dal fallimento della loro integrazione, dalla mancata promessa di una vita migliore, da quella illusione che NOI gli abbiamo dato nel momento in cui gli abbiamo fatto credere che sarebbe stato tutto facile, che avrebbero avuto tutto al pari della bocca.

E questa assurda e suicida politica la continuiamo a perseguire con quella che è una vera e propria apertura delle frontiere, centinaia di migliaia di persone illuse di trovare una vita migliore e che avranno tutto al pari della bocca.

Ora, è inutile negare che la maggioranza di coloro che stanno arrivando sulle nostre coste sia di fede islamica. E’ inutile negare il fatto che è praticamente impossibile controllarli tutti, controllare la loro effettiva provenienza. Senza rendercene conto stiamo alimentando con “carne fresca” la Jihad della porta accanto, quella Jihad cioè che non sta in Siria o in Iraq ma che abbiamo nel nostro vicino di casa, nei nostri quartieri, quella Jihad che vive e si alimenta di mancata integrazione, di promesse mancate, di disagio sociale, persino di povertà. E’ in queste crepe che gli imam integralisti trovano i loro adepti.

Ci stiamo preoccupando del fatto che migliaia di “europei” siano andati a combattere la Jihad in Siria e in Iraq quando invece ci dovremmo preoccupare di quelli che sono rimasti, di quelli che sono e che saranno tra di noi. Ci dovremmo preoccupare dello jihadista della porta accanto.

Francamente non ho soluzioni a questo problema, ormai è troppo radicato e una soluzione a breve tempo credo che sia impossibile. Sto solo cercando di analizzare un contesto per cercare di capire cosa fare in futuro per evitare di peggiorare una situazione che ancora forse non vediamo nella sua drammaticità.

E non possiamo non parlarne, non possiamo continuare a far finta di nulla per paura di essere tacciati di razzismo o di islamofobia, perché come diceva sempre Oriana Fallaci, vi sono momenti, nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre.

[glyphicon type=”user”] Scritto da Carlotta Visentin

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