Che Netanyahu sulla vicenda del Monte del Tempio a Gerusalemme abbia ceduto alle pressioni arabe credo che non possa essere messo in discussione. Ieri i media arabi erano invasi da vignette che celebravano la “vittoria araba” su Israele, un fatto più unico che raro e che andava celebrato. Ma è stata veramente una vittoria araba oppure quella che sembra essere una sconfitta di Netanyahu e di Israele altro non è che un esempio di saggezza politica?

Senza avere la presunzione di giudicare l’operato di Netanyahu, anche perché non spetta certamente a me farlo, vorrei ragionare un attimo su quelle che sono le possibili cause che hanno spinto il Premier israeliano a cedere alle pressioni arabe.

Punto primo: indebolimento della causa palestinese nel mondo arabo. Chi segue da vicino le vicende del Medio Oriente non può non aver notato il forte indebolimento della cosiddetta causa palestinese in seno al mondo arabo. Contrariamente agli occidentali, sempre più innamorati degli arabo-palestinesi più per ragioni di antisionismo che per altro, nel mondo arabo la causa palestinese ha stancato. In 70 anni i cosiddetti palestinesi non hanno fatto un solo passo avanti verso la costituzione di un loro Stato. Al contrario hanno continuato a mantenere una posizione fortemente dipendente dagli aiuti internazionali senza però approfittare di questa enorme mole di denaro per costruire le basi dell’ipotetico Stato palestinese. Anzi, tutti sanno che la leadership palestinese ha attinto a piene mani a quegli aiuti per rimpinguare i loro conti correnti svizzeri e per pagare i terroristi. Per quanto Israele sia odiata ormai anche gli arabi si sono convinti che l’obiettivo della distruzione dello Stato Ebraico non è più un obiettivo raggiungibile, né con un conflitto né con altri sistemi. Israele è una realtà con la quale anche gli arabi più intransigenti devono confrontarsi. La prima conseguenza di questa “presa di coscienza” è il venire meno delle ragioni che hanno portato alla invenzione del popolo palestinese, cioè la distruzione di Israele. I cosiddetti palestinesi avevano (e hanno) una sola arma per potersi “riprendere” l’attenzione araba, quella di scatenare un conflitto religioso su Gerusalemme e sulla moschea di Al Aqsa. La decisione di Netanyahu ha di fatto tolto questa “arma” dalle mani dei cosiddetti palestinesi.

Punto secondo: le priorità. Per quanto militarmente potente, Israele rimane uno Stato piccolissimo circondato (letteralmente) da nemici. E’ quindi logico che, per quanto riguarda la difesa, un Premier degno di questo nome debba creare una scala di priorità, cioè debba decidere su quale obiettivo concentrarsi per salvaguardare la sicurezza del Paese. Ebbene, in questa scaletta i cosiddetti palestinesi sono all’ultimo posto. Prima di loro c’è il pericolo rappresentato da Hezbollah e dall’Iran, c’è lo Stato Islamico, ci sono i gruppi terroristici legati a Teheran come per esempio la Jihad Islamica, c’è Hamas che sebbene sia un gruppo terrorista palestinese sunnita è sempre più vicino all’Iran e ogni giorno minaccia una nuova guerra. Insomma, le priorità per la difesa di Israele sono ben altre rispetto alla questione palestinese e di certo un innalzamento della tensione interna con i cosiddetti palestinesi avrebbe compromesso questa “scaletta di priorità” togliendo importanti risorse dalla difesa reale del Paese.

Punto terzo: lo scontro interno al mondo islamico. Più il mondo islamico è diviso e più Israele ci guadagna. Detto così sembra cinico ma è la cruda realtà. E’ grazie alla divisione del mondo islamico che è stato possibile il recente avvicinamento tra lo Stato Ebraico e le monarchie del Golfo. Solo un conflitto su Gerusalemme e sulla moschea di Al Aqsa può riunificare il mondo islamico sotto la bandiera comune della religione e riportare Israele al ruolo di “nemico comune”, una ipotesi esplosiva che Netanyahu doveva disinnescare ad ogni costo (anche per i primi due punti esposti sopra). Non è un caso che la Turchia cerchi a tutti i costi di cavalcare le recenti tensioni sul Monte del Tempio per ritagliarsi un ruolo di guida del mondo islamico riunificatosi sotto la bandiera della lotta al comune nemico israeliano. Non è una cosa che si può permettere a Erdogan di fare, Netanyahu lo sa benissimo.

A mio avviso basterebbero questi tre punti per guardare con occhi diversi alla decisione di Netanyahu di cedere alle pressioni arabe e per rivalutare l’operato del Premier israeliano. E’ vero che per i duri e puri (spesso con il sedere degli altri) quella di Netanyahu può sembrare una resa a tutto tondo, ma la politica – specie in Medio Oriente – è una faccenda troppo complessa per poterla fare d’istinto o seguendo le tendenze su Facebook. Il Premier israeliano è stato a mio modestissimo avviso molto accorto preferendo non rovinare anni di politica quasi impeccabile nei confronti dei cosiddetti palestinesi e volta soprattutto a un lento ma costante ammorbidimento delle posizioni arabe nei confronti di Israele. Poteva anche tenere duro e non darla di vinta agli arabi, ma ne valeva la pena?