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A leggere la stragrande maggioranza dei media mondiali i colloqui tra Israele e Palestina che riprendono oggi a Washington sono una eccezionale opportunità per raggiungere la tanto agognata pace. Il problema che però tutti questi ottimisti non vedono sta proprio in quella parolina magica: pace.  

Mi sono sempre sentita dire che “la pace si fa con il nemico”, un concetto sacrosanto quando di fronte ci sono due nemici che, pur odiandosi, si riconoscono reciprocamente. La storia è piena di casi in cui nemici storici hanno raggiunto la pace anche dopo lunghissimi e sanguinosi conflitti. Ma al momento di mettersi ad un tavolo a trattare la pace (o quantomeno la fine delle ostilità) vi è sempre stato come base fondamentale il reciproco riconoscimento. Un caso emblematico in tal senso è stato il lunghissimo conflitto tra il Sudan e il Sud Sudan, oltre 22 anni di guerra, milioni di morti e di sfollati. Ebbene, la pace è scoppiata quando il Sudan ha riconosciuto il Sud Sudan come una entità, uno stato, un popolo. Non un secondo prima. Solo allora, quando cioè Khartoum ha riconosciuto nella controparte una nazione vera e propria, ci si è potuti sedere e trattare.

D’altra parte persino le direttive ONU sulle trattative di pace tra parti in conflitto, un complesso armamentario di regole e obbiettivi destinato ai negoziatori, come base fondamentale per l’inizio di qualsiasi trattativa di pace viene posto il riconoscimento reciproco.

Nel caso delle trattative tra Israele e Palestina manca quindi la base fondamentale persino per sedersi allo stesso tavolo, manca cioè da parte palestinese il riconoscimento di Israele. Ora, io mi chiedo come possano pretendere questi grandi “statisti” come il trio Obama/Kerry/Ashton o tutti gli ottimisti di questo mondo, che si possa parlare di pace con una delle due parti che non riconosce l’altra. E’ come se uno volesse guidare una macchina senza motore e pretendesse che comunque si muova quando si accelera.

Ho la netta impressione che queste cosiddette trattative di pace tra Israele e Palestina servano solo politicamente a chi le ha volute con tanta insistenza, ma che concretamente non portino da nessuna parte. D’altra parte gli accordi tra le parti ci sono già (accordi di Oslo), basterebbe imporre ai palestinesi il loro rispetto che, tra le altre cose, prevedeva proprio il riconoscimento reciproco. Invece si vuol fare un passo indietro e in un sol balzo tornare al 1967.

Per capire come tutto questo sia una inutile perdita di tempo basterebbe che questi “statisti” chiedessero ai palestinesi di riconoscere Israele. Sono pronta a scommettere che non lo faranno mai. E allora, di cosa stiamo parlando? Su che basi parliamo di pace quando manca il presupposto principale per poterlo fare? Possiamo parlare solo di come evitare che il conflitto degeneri, di come regolamentare alcune cose e alcune collaborazioni tra le parti, ma non possiamo certo parlare di pace.

Come sempre quindi il problema israelo-palestinese viene affrontato nella maniera sbagliata perché si da la possibilità a una parte, quella palestinese, per altro strategicamente in posizione decisamente di inferiorità, di poter imporre le proprie condizione all’altra parte, Israele, che invece può pretendere di trattare da una posizione di forza. E’ come se alla fine della seconda guerra mondiale gli alleati avessero permesso ai tedeschi di imporre le loro condizioni per la resa. E’ chiaramente un controsenso storico che in secoli e secoli di trattative di pace possiamo trovare solo nel conflitto israelo-palestinese.

Onestamente non so perché Netanyahu si stia prestando a questa ennesima presa per i fondelli (per altro liberando oltre 100 criminali come segno di buona volontà) e a questo vero e proprio controsenso storico. Spero che sia così bravo da avere un secondo fine così importante per Israele da fargli superare la presa in giro palestinese e lo shock per la liberazione di tanti criminali. Lo spero veramente.

Miriam Bolaffi