Stato di emergenza in Myanmar (Birmania) dove domenica scorsa le tensioni religiose tra un gruppo islamico e cittadini di fede buddista sono sfociate in scontri aperti che hanno lasciato sul terreno almeno 17 morti e qualche centinaio di feriti.
Secondo quanto riferito da diversi osservatori le tensioni sarebbero particolarmente forti in prossimità del confine con il Bangladesh dove vive l’etnia di fede islamica degli Rohingya, una minoranza che da diversi mesi soffia sul fuoco dell’odio religioso e che sta seriamente compromettendo gli sforzi del Governo birmano di instradare il Myanmar verso un percorso democratico.
Il problema non è di facile soluzione. I Rohingya sono il più grande gruppo di apolidi in Asia (800.000 unità) e vivono in condizioni di estrema povertà isolati in una regione al confine con il Bangladesh. In un contesto così drammatico si sono facilmente inseriti gli estremisti islamici usando, come fanno sempre, il “cavallo di troia” delle ONG e dell’assistenza islamica.
Nel corso dei mesi l’esasperazione per le condizioni di povertà e il montante odio verso coloro che non sono islamici ha portato ad una escalation della tensione tra i Rohingya e le popolazioni buddiste della Birmania fino a sfociare nei sanguinosi scontri di domenica scorsa quando gli islamici hanno dato alle fiamme diversi villaggi buddisti.
I timori ora sono che gli scontri si allarghino anche ad altre regioni del Paese rallentando la già lenta evoluzione democratica del Paese. Come sempre si deve assistere alla prepotenza islamica che non esita un attimo ad approfittarsi delle condizioni di povertà e miseria per attecchire nelle deboli menti degli oppressi. La “teologia del container” trasportata anche in Asia.