Quello che più si temeva si sta purtroppo realizzando. Una ondata di COVID-19 sta investendo i campi profughi siriani in particolare quelli nella Siria nord occidentale dove sono ammassati oltre quattro milioni di profughi.
L’allarme arriva dalla UNHCR, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, che nelle ultime settimane ha registrato un picco dei contagi da COVID-19 non solo nei campi in Siria ma anche in quelli in Iraq e in Libano, un allarme che coinvolge quindi quasi 15 milioni di persone.
«L’impossibilità di applicare nei campi le poche regole per evitare il contagio come il distanziamento sociale, le mascherine e l’igiene personale, unito al vertiginoso aumento dei casi di positività al COVID-19 destano grande preoccupazione» ci ha detto Rula Amin, portavoce del UNHCR.
«A questo va aggiunta la mancanza di tamponi che ci impedisce di individuare e isolare i focolai, la mancanza di medicinali e di materiale sanitario. Se poi pensiamo che stiamo andando verso l’inverno il quadro si fa davvero catastrofico» ci dice un altro funzionario dell’Onu.
Gli effetti a cascata dell’espandersi della pandemia nei campi profughi siriani riguardano anche l’impossibilità per i bambini di andare a scuola, la maggiore difficoltà nel portare aiuti umanitari, ma soprattutto la difficoltà a dare una copertura sanitaria decente.
Dopo 10 anni di conflitto in Siria oltre il 65% della popolazione siriana è “sfollata interna”, cioè vive in campi profughi sovraffollati all’interno della Siria, campi dove manca quasi tutto.
Ora con il rischio molto serio che si scateni un enorme focolaio di COVID-19 in questi campi, la comunità internazionale dovrebbe prendere seriamente l’allarme lanciato dalla UNHCR e almeno fornire i materiali necessari a monitorare l’espandersi della epidemia e una serie di strumenti di primo soccorso.
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