«Con Hamas ci abbiamo provato in tutti i modi a trattare ma è chiaro che le buone intenzioni non bastano». Parla così un funzionario israeliano che chiede l’anonimato in merito alla attuale situazione in Israele e con particolare riferimento alla ondata di violenza che sta investendo lo Stato Ebraico che proprio Hamas sta cavalcando.
Checché se ne dica e a prescindere da come uno la pensi a riguardo, per la prima volta nella storia recente del Medio Oriente arabi e israeliani si sono seduti a un tavolo e lo hanno fatto quasi alla luce del sole. Da un lato l’Arabia Saudita e il Qatar, dall’altro Israele. In mezzo a mediare la Giordania e, più defilato, l’Egitto. Oggetto dei colloqui: combattere il pericolo iraniano che aleggia su tutta la regione e in particolare in Siria. Lo scopo comune è quello di “alleggerire” il conflitto israelo-palestinese con accordi di lungo periodo in modo da togliere agli iraniani un’arma importantissima come la cosiddetta “causa palestinese” e permettere così a Israele di concentrarsi su quello che anche per gli arabi è il vero pericolo, l’Iran. E fino a poco tempo fa tutto andava per il meglio. Gli accordi per la ricostruzione di Gaza erano a buon punto, Qatar e Israele si erano messi d’accordo per portare il gas a Gaza, un accordo veramente storico studiato e mediato da Muhammad al-Ahmadi, capo del comitato del Qatar per la ricostruzione di Gaza. Eppure, quando tutto sembrava andare per il meglio e gli accordi con Hamas stavano per essere chiusi, ecco arrivare la Jihad Palestinese o, come la chiamano i romantici, la terza intifada.
A rompere le uova nel paniere arabo-israeliano è stata la vicenda di Gerusalemme e in particolare la falsa accusa lanciata da Abu Mazen (seguito a ruota dagli Ayatollah) che la Moschea di Al Aqsa sarebbe stata “giudeizzata”. Il Presidente della ANP non aveva digerito i colloqui diretti tra gli arabi e gli israeliani che coinvolgevano Hamas e la Striscia di Gaza, lo aveva mostrato più volte e alla fine ha spinto al massimo la provocazione (ben indirizzato da Teheran e dall’ala militare di Hamas) tanto da scatenare proteste di massa e quella sequela di attentati a cui stiamo assistendo.
E chiaro che la questione è parecchio più complessa, ma la sintesi semplificata al massimo è questa e alcuni retroscena sono ben spiegati da Adrian Niscemi in questo articolo. Il problema è che il susseguirsi degli eventi e il loro precipitare ha ridato voce all’ala militare di Hamas che fa capo a Mohammed Deif, cioè colui che si è sempre opposto a qualsiasi trattativa con Israele e che ventila il ritorno di Hamas sotto l’ala protettiva di Teheran. Deif non è uno qualsiasi, probabilmente è l’uomo che comanda a Gaza anche se il volto ufficiale è quello di Isma’il Haniyeh. Ha un enorme seguito e si è sempre rifiutato di accettare gli ordini dell’Arabia Saudita di liberarsi della Jihad Islamica legata all’Iran. E’ un duro e puro della lotta armata e a Gaza non si muove filo senza che Mohammed Deif non approvi. Deif ha saputo sapientemente “appropriarsi” della Jihad palestinese, ha bloccato qualsiasi passo avanti fatto tra arabi e israeliani e, contemporaneamente, è tornato con decisione verso l’Iran invece che andare, come sarebbe stato logico, verso l’Arabia Saudita. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Ora il problema è capire bene quello che serve (o servirebbe fare) con Hamas. Posto che i colloqui tra Israele e arabi continuano nonostante tutto, in molti a Gerusalemme sono convinti che non potendo trattare con Hamas l’unica soluzione sia quella di renderlo inoffensivo una volta per tutte. Per farlo ci sono due strade: quella adottata dall’Egitto di Al Sisi, molto dura ma non estrema, e quella radicalmente definitiva che prevede l’eliminazione fisica di Hamas e di tutte le sue strutture. Ci sarebbe anche una terza via, proposta proprio dagli egiziani, cioè quella di colpire solo le teste di Hamas in maniera mirata, ma la struttura del gruppo terrorista palestinese è ben congegnata e fatta in modo che tagliata una testa ve ne sia subito un’altra pronta a subentrare. Sarebbe quasi inutile.
Gli analisti del Mossad e del IDF avrebbero (il condizionale è d’obbligo) messo in piedi una strategia “graduale” che prevede un inizio basato sulla tecnica adottata dagli egiziani, cioè la chiusura ermetica della Striscia di Gaza, la costruzione di una zona cuscinetto e il blocco totale dei trasferimenti di materiale verso Gaza. Se questo non dovesse bastare a riportare Hamas sulla giusta strada ci sarebbe l’inizio di una serie di attacchi mirati alle strutture militari dei terroristi. Solo in ultima analisi ci sarebbe l’opzione radicale e definitiva che però comporterebbe una vera e propria guerra, qualcosa cioè che Israele adesso non vuole in quanto si rende conto che per lo Stato Ebraico il pericolo maggiore arriva dall’Iran e dai loro proxi, a partire da Hezbollah.
Il problema è che Hamas si rende conto perfettamente che Israele non vuole arrivare allo stadio estremo (cioè alla guerra) perché le sue priorità strategiche sono altre e ne vuole approfittare proprio scatenando la Jihad palestinese (o intifada) con l’aiuto della Jihad Islamica eterodiretta da Teheran. Il rischio, molto ma molto concreto, è che Hamas faccia di tutto per far precipitare la situazione tanto da portare Israele a reagire in maniera dura (con relativo codazzo di condanne internazionali). Nessuno a Gerusalemme sottovaluta questo rischio ed è per questo che il Governo si muove con molta prudenza (criticato per questo da più parti) ed è per questo che in queste ore i colloqui con gli arabi sono febbrili. Si vuole tornare alla situazione che c’era prima dell’inizio della Jihad palestinese. Diversamente le alternative sono purtroppo poche. Arabi o non arabi, Europa o non Europa, se con Hamas non si può trattare bisogna distruggerlo.
Scritto da Paola P.