Impossibile recuperare i bambini soldato di Hamas (con tanti saluti ai due popoli)

Se non puoi recuperare i bambini non recuperi nemmeno la società

By Franco Londei - Editor

Non so se sia il momento più adatto per parlarne, ma prima o poi quello dei bambini soldato di Hamas è un argomento che andrà trattato. Tanto vale parlarne subito.

A dire il vero noi di RR è un po’ che ne parliamo, sin dal lontano 2014, da quando cioè lanciammo inascoltati l’allarme per l’uso spregiudicato che Hamas faceva della educazione dei bambini.

Da allora le cose sono addirittura peggiorate se è vero (ed è vero) che durante l’ultima guerra Hamas avrebbe mandato allo sbaraglio migliaia di bambini soldato inquadrati nei battaglioni di prima linea, il tutto per due motivi: primo: far passare l’idea che Israele uccidesse bambini (e ci sono riusciti), secondo: preservare le forze migliori, ovvero le Brigate Izz al-Din al-Qassam (e anche qui ci sono riusciti).

Ad essere sinceri potremmo parlare anche di bambini soldato di Fatah o della Jihad Islamica perché la pratica di arruolare dodicenni non è un’esclusiva di Hamas, quindi parleremo più in generale di “bambini soldato palestinesi”.

Perché recuperare i bambini soldato? Cosa vuol dire?

Quando parlo di “recuperare i bambini soldato” intendo più in generale reintrodurli nella società allontanandoli nel contempo dalla mentalità Jihadista inculcatagli sin da piccoli.

La tecnica del lavaggio del cervello mi ricorda molto da vicino quella che vidi in nord Uganda con il Lord’s Resistence Army di Joseph Kony.

Kony rapiva i bambini dai villaggi del Nord Uganda dopo averli costretti ad uccidere persino le loro madri. Dopo di che faceva loro il lavaggio del cervello aiutandosi con abbondante stupefacente e allucinogeni, tanto da convincerli a gettarsi contro i soldati ugandesi sicuri di essere immuni alle pallottole.

bambini soldato in Africa

Nel caso dei bambini soldato palestinesi il lavaggio del cervello inizia alle scuole elementari e non è indotto da droghe o allucinogeni come lo era nel caso ugandese – anche se non si esclude che i bambini soldato di Hamas si siano gettati contro l’IDF sotto effetto del Captagon – ma avviene in modo più “naturale”, semplicemente facendoli crescere con l’idea jihadista.

Anche l’Uganda, quando Kony si diede alla fuga, si trovò nella necessità di recuperare migliaia di bambini soldato. A Kampala scelsero (almeno per una parte) una strada che provocò molte proteste dalla società civile, scelsero cioè di integrare quei bambini all’interno del UPDF, cioè dell’esercito ugandese.

Eticamente una scelta discutibile, anche se circoscritta a quei bambini che non potevano rientrare nei loro villaggi perché (anche se sotto costrizione) avevano ucciso i loro vicini e persino i loro genitori, ma funzionò. Cinque anni dopo quei bambini non solo erano integrati nella società ma alcuni di loro erano soldati espertissimi che davano la caccia a Kony nelle foreste del Congo, mentre altri aiutavano dove serviva, con il nord Uganda che accoglieva milioni di profughi.

A Gaza (e in Cisgiordania) la missione è molto più difficile. A Gaza i bambini sono cresciuti con l’odio verso gli ebrei e la filosofia jihadista inculcati quasi con dolcezza, dalle scuole primarie e dai libri di testo distribuiti dalla UNRWA.

Le recite di fine anno scolastico non sono con Cappuccetto Rosso, la nonna e il lupo, ma raccontano di attacchi mortali contro il “nemico sionista”, di rapimenti e stragi. Crescono con questa mentalità. La stessa società che li circonda è pervasa dall’odio verso gli ebrei e dalla mentalità jihadista. In sostanza non esiste una società “diversa” che possa integrarli.

Non è un problema da poco. Molti di questi bambini soldato non solo sono cresciuti con l’odio al posto del sangue, ma hanno visto uccidere molti loro amici, parenti e persino genitori. Non li sradichi da quel contesto.

Molto difficile lavorare anche sulle nuove generazioni perché il contesto che circonda questi bambini è lo stesso da almeno sette decenni, un contesto saturo di odio e di mentalità jihadista. Non hanno “buoni maestri”.

L’unica possibilità è che il cosiddetto “popolo palestinese” torni alle sue origini e che le società, egiziana dal lato Gaza, giordana dal lato Giudea e Samaria, li prenda in carico con la speranza che almeno sulle nuove generazioni ci si possa lavorare.

Temo che il malato sia inguaribile e che, checché se ne dica, la formula “due stati per due popoli che vivono in pace l’uno vicino all’altro” sia impraticabile in particolar modo nella parte in cui si parla di “vivere in pace”. Per diventare fattibile bisognerebbe ripartire proprio dai quei bambini, ma è veramente una missione impossibile.

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Esperto di Diritti Umani, Diritto internazionale e cooperazione allo sviluppo. Per molti anni ha seguito gli italiani incarcerati o sequestrati all’estero. Fondatore di Rights Reporter