Quella che si sta giocando sulla Striscia di Gaza è una difficile e complessa partita a scacchi giocata però da più giocatori e non da soli due competitori come sarebbe logico aspettarsi da questo magnifico gioco di strategia.
Non ci sono infatti solo Israele e Hamas a giocare la partita di Gaza. Prima di tutto c’è l’Egitto, parte in causa fortemente interessata a calmierare la situazione. Poi c’è l’Autorità Nazionale Palestinese che in teoria dovrebbe rappresentare tutto il mondo arabo-palestinese e non solo quello che vive in Giudea e Samaria. Infine c’è l’Iran, interessato a che la Striscia di Gaza rimanga un fronte aperto per Israele e che gli israeliani non trovino alcun accordo a lungo termine con Hamas.
I movimenti delle intelligence e le scelte obbligate
In questi giorni a farla da padrone sono le intelligence delle parti interessate. Il 14 marzo scorso una delegazione di altissimo livello dei servizi segreti egiziani arrivava nella Striscia di Gaza per definire con Hamas un cessate il fuoco di lungo periodo con Israele, o meglio, per definire i dettagli finali di tale accordo perché su diversi punti un accordo c’è già.
Tutto sembrava filare liscio, almeno fino a quando mani sconosciute non hanno lanciato due missili su Tel Aviv, un atto fortemente simbolico e che non avveniva dal 2014, cioè dall’ultima guerra tra Israele ed Hamas.
La reazione israeliana è stata fulminea e massiccia. Prima Gerusalemme ha chiesto alla delegazione egiziana di lasciare Gaza, poi l’aviazione israeliana ha colpito almeno 100 obiettivi di Hamas. Intendiamoci, tutti sapevano che a lanciare quei due missili era stata la Jihad Islamica, agli ordini di Teheran, e non Hamas che non aveva alcun interesse in un attacco così simbolicamente importante. Però Israele considera Hamas responsabile di tutto ciò che avviene nella Striscia di Gaza, per cui la risposta israeliana ha colpito proprio le infrastrutture del gruppo terrorista che governa Gaza.
Il fatto è stato chiarito tre giorni dopo, il 17 marzo, quando la stessa delegazione egiziana che si era regata a Gaza è volata a Gerusalemme per un incontro con il capo dello Shin Bet, Nadav Argaman.
Da quell’incontro sono emerse alcune cose che ad alcuni potrebbero non piacere ma che allo stato attuale delle cose sembrano le uniche scelte sensate, quasi obbligate, per evitare che la Striscia di Gaza finisca direttamente sotto l’influenza iraniana.
Prima di tutto l’accordo di lungo termine tra Israele e Hamas è a buon punto. Mancano alcuni dettagli, ma sia Israele che Hamas non sono intenzionati ad una escalation. Israele perché non vuole fare un favore all’Iran aprendo un fronte a sud come a Teheran vorrebbero, Hamas perché si rende conto che sta perdendo il controllo della situazione e l’unico modo che ha per sopravvivere è proprio un accordo con Israele. Anche le ultime manifestazioni contro Hamas viste nella Striscia di Gaza non sarebbero esenti dall’influenza di Teheran.
Insomma ci sarebbe un reciproco interesse nell’arrivare a un accordo di lungo termine tra Israele e Hamas.
Il problema è che l’Egitto, in qualità di mediatore, Israele ed Hamas devono fare i conti con la grave situazione che si vive a Gaza, situazione della quale potrebbe approfittare la Jihad Islamica e quindi l’Iran. Il lancio dei due missili su Tel Aviv proprio quando la delegazione egiziana si trovava a Gaza per discutere l’accordo con Israele non è certo una coincidenza.
Cosa succede adesso?
Beh, adesso la partita a scacchi continua. I progressi verso un accordo sono reali e palpabili. Hamas ha rinunciato ad alcuni punti fermi in cambio di una apertura da parte israeliana in merito a concessioni sulla mobilità di uomini e materiali, concessioni che ha fatto anche l’Egitto.
Questo però crea contestualmente anche un problema con Teheran che si vede scivolare dalle mani l’apertura di quel “fronte sud” tanto agognato. L’Iran e quindi la Jihad Islamica faranno di tutto per impedire l’accordo ben sapendo che ogni attacco a Israele vedrà la reazione di Gerusalemme su Hamas. E più gli attacchi saranno eclatanti, più forte sarà la reazione israeliana.
Hamas è a un bivio. O decide in fretta di sopravvivere accordandosi con Israele per tramite dell’Egitto, o passa sotto l’influenza iraniana e scatena un conflitto che questa volta potrebbe voler dire la sua estinzione.
Ore febbrili
Queste sono ore febbrili perché il tempo stringe per tutti. Per Israele che è alle soglie di elezioni nella quali un accordo a lungo termine con Hamas potrebbe fare la fortuna o la sfortuna (in caso di mancato accordo) di Netanyahu che punta a non aprire un fronte concentrandosi solo sul front nord dove l’Iran è decisamente più pericoloso. Per Hamas perché da quell’accordo dipende la sua sopravvivenza. Per l’Iran che vede scivolare via il sogno di vedere Israele impegnato su più fronti. Per l’Egitto che in caso di accordo vedrebbe Hamas uscire dall’orbita di influenza iraniana e della Fratellanza Musulmana. Infine per l’Autorità Nazionale Palestinese che in caso di accordo vedrebbe svanire ogni possibilità di riprendere il controllo della Striscia di Gaza.
Proprio in queste ore, vista anche la situazione a Gaza, i negoziatori sono al lavoro per raggiungere almeno un accordo preliminare che consenta a Israele di non avere sulla testa la spada di Damocle di un fronte sud e allo stesso tempo che consenta ad Hamas di riprendere il controllo della situazione.
Non è un lavoro facile perché, come abbiamo spiegato, le parti in causa sono diverse e con diversi interessi e anche in Israele c’è chi questo accordo non lo vuole. Poco importa che sia un accordo quasi obbligato, almeno per il momento, c’è chi sostiene che l’unica soluzione per Gaza sia l’annientamento di Hamas e la sua sostituzione con la ANP con il rischio però che a giovarsene sia l’Iran e non Abu Mazen.