A due anni dallo sradicamento del Califfato dalla zona di confine tra Iraq e Siria, sembra che quell’area continui ad essere una sorta di “zona grigia” dove i confini trai due stati si confondono e dove le milizie islamiste continuano a proliferare.
Il ritiro americano da quell’area non ha fatto altro che mostrare con più evidenza quello che era già chiaro anche prima, e cioè che quell’area è al centro di una contesa interna all’islam che però diventa strategica per tutto il Medio Oriente.
La narrativa che ognuno da alle proprie rivendicazioni su questa terra è ampia e persino storica, nel senso che è radicata nei secoli. I turchi, i persiani, gli arabi, i curdi, ognuno ha le proprie “identità” da sventolare per rivendicare il possesso storico di queste terre.
Poi la narrativa finisce e comincia la storia moderna. E quando la storia moderna ci mostra la realtà attuale di quella striscia di terra fondamentale per il controllo del Medio Oriente, ci accorgiamo che in realtà ci sono ben pochi “vincitori”. Forse uno solo.
Mentre noi ci sgolavamo per denunciare l’invasione turca della regione di Afrin nel Kurdistan siriano, cioè all’interno di quell’area che tanto ci interessa, gli iraniani (o persiani) ne prendevano di fatto possesso attraverso i loro proxy regionali.
Gli iraniani hanno infatti trasformato quest’area di confine in un teatro operativo chiave per quello che loro chiamano “l’asse della resistenza”, cioè quel conglomerato di sigle che racchiude le centinaia di migliaia di combattenti sciiti che arrivano da tutto il mondo per sostenere l’Iran nella guerra a Israele.
E così ad uno sguardo attento sul Medio Oriente e sulle sue complesse dinamiche, non sarà sfuggito che il confine tra Iraq e Siria è diventato un prolungamento dell’Iran con il Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica(IRGC) che proprio in quella zona ha schierato gruppi come Kataib Hezbollah, Harakat Hezbollah al-Nujaba, Liwa al-Tafuf, Kataib Sayyid al-Shuhada e Fatimyuun (una milizia composta prevalentemente da combattenti sciiti afghani) che di fatto hanno preso possesso dei distretti di confine di Qaim e Sinjar nell’Iraq occidentale.
È da quei valichi che gli iraniani contano di far passare i missili, le armi avanzate e i miliziani che servono alla guerra contro Israele.
Sono mesi che Gerusalemme pone in tutti gli ambiti internazionali il problema sul controllo di quell’area che permette all’Iran di arrivare dritta al Mediterraneo, ma nessuno risponde o, forse, a nessuno interessa veramente.
Saltuariamente un attacco aereo che si presume portato da Israele colpisce i depositi di armi e le basi iraniane in quell’area, ma è come voler svuotare il mare con un secchio. È come se fosse l’autostrada Teheran – Damasco – Beirut. Gli iraniani stanno spostando il loro esercito sul confine con Israele e per farlo spostano il loro stesso confine in una zona che dovrebbe essere sotto controllo iracheno e siriano.
Tutto questo avviene oggi, sotto gli occhi della comunità internazionale, quella stessa che dal prossimo 29 novembre tornerà a trattare con Teheran il modo migliore per fare avere la bomba atomica agli Ayatollah.
Ma la cosa a suo modo comica è che Teheran non ha bisogno della bomba atomica per ricattare Israele. Quando avrà finito di armare “l’asse della resistenza” e di spostare un’intero esercito al confine con lo Stato Ebraico, l’atomica sarà solo un optional.