Islam e paradosso saudita: perché dovremmo aiutare Mohammed bin Salman

16 Novembre 2017

Gli studiosi di Islam lo chiamano il paradosso saudita, un paradosso che è stato ben raffigurato dal fumettista algerino noto come “Le Hic” il quale con una folgorante vignetta rappresenta il re saudita che annuncia la sua determinazione a combattere il terrorismo islamico puntandosi una pistola alla tempia.

paradosso saudita

L’Arabia Saudita, patria del wahhabismo che per decenni ha fomentato e finanziato l’estremismo islamico più violento e virulento, che improvvisamente decide di lottare contro il terrorismo islamico sembra quasi una barzelletta più che una intenzione a cui credere. Eppure lo sconquasso che ha provocato quella decisione nel mondo islamico è evidente, soprattutto nel mondo arabo più che da noi. I social media arabi sono pieni di post a favore o contro, il dibattito anche tra gli studiosi islamici è così acceso che spesso sfiora la rissa verbale. C’è chi sostiene che la decisione saudita sia figlia di un clamoroso cedimento di Riad alle pressioni americane, chi invece sostiene che dietro ci sia il Principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS) che avrebbe reali intenzioni di modernizzare il regno saudita e di portarlo fuori dal medio evo islamico. Al di la delle discussioni tutti sembrano concordare con il fatto che quanto si prefigge la casa saudita non sia in realtà una cosa fattibile. «La riforma saudita sembra ora necessaria più che mai, ma allo stesso tempo appare impossibile» scrive sinteticamente il giornalista di origine algerina Kamel Daoud.

Ma perché gli studiosi di islam sono convinti che al di la delle buone intenzioni (reali o meno) di MBS di modernizzare l’Arabia Saudita, il principe saudita non abbia in realtà tante possibilità di farlo? Ce lo spiega ancora Kamel Daoud con alcuni cenni storici.

Scrive Daoud: «Intorno al 1744 un capo tribù, Muhammad ibn Saud, formò un’alleanza con un predicatore ultraconservatore di nome Muhammad ibn Abd al-Wahhab e creò il primo stato monarchico nella penisola arabica. Da un lato c’era la famiglia Saud che governava il paese per diritto di sangue e successione, dall’altro c’era il wahhabismo, una versione ultra-puritana ed estrema dell’Islam che chiamavano l’Islam originale. Una famiglia e un clero, il tutto saldato nel corso dei decenni tanto dalle entrate petrolifere quanto dalla legittimità derivante dalla vicinanza ai luoghi più sacri dell’Islam».

Da questo cenno storico possiamo capire quanto il wahhabismo e la casa reale saudita siano storicamente legati, non solo ideologicamente ma anche finanziariamente. Non solo, il wahhabismo oltre ad essere una delle matrici storiche dello Jihadismo globale è soprattutto la fonte ideologica e finanziaria del potere degli islamisti e della loro costellazione di moschee e centri islamici in occidente, delle reti televisive dedicate alla diffusione dei sermoni che non di rado diffondono odio verso gli infedeli e alimentano violenza, alimenta i partiti politici islamici che tentano con ogni mezzo di ottenere un riconoscimento. E se da un lato il wahhabismo si contrappone all’altro grande centro di potere islamico, la Fratellanza Musulmana, dall’altro ne condivide in pieno gli obiettivi e i metodi. Può allora l’Arabia Saudita tagliare la mano che la nutre?

Personalmente non credo che possa farlo, perlomeno non nel breve periodo. Anzi, credo che le annunciate riforme e la dichiarata voglia di combattere il terrorismo islamico possano mettere la casa reale saudita nel mirino degli estremisti di ogni confraternita islamica. E’ vero, Mohammed bin Salman non sembra uno intimorito dagli estremisti, ha fatto un repulisti dei nemici senza precedenti, ma le masse arabe non sembrano seguirlo. I social media arabi sono pieni di critiche nei suoi confronti, lo giudicano un debole e un venduto. L’avvicinamento strategico a Israele poi non lo aiuta, anzi, è una delle critiche più forti che gli viene mossa. Si arriva a definirlo un “traditore dell’islam”.

E ne hanno ben donde gli estremisti per criticarlo. Già il fatto stesso che venga giudicato un “riformista” lo pone lontano dall’islam integralista. Ha convinto il padre a permettere alle donne saudite di guidare, di andare allo Stadio e sembra che ben presto potranno andare pure al cinema. Per noi occidentali sembrano cose ovvie, ma per l’Arabia Saudita è un passo enorme, impensabile fino a qualche tempo fa. Che dire poi della espressa volontà di rivedere addirittura i grandi canoni dell’ortodossia islamica, inclusi gli hadith, la raccolta dei detti del profeta Maometto? Ed è proprio su questi punti che ritorna il paradosso saudita. Può il principe MBS coniugare le riforme in Arabia Saudita e la lotta all’estremismo islamico di cui proprio l’Arabia Saudita è una delle massime espressioni, con i legami stretti e storici con il wahhabismo? Può il principe saudita andare contro quello che alimenta e tiene unito il suo regno? E’ una bella sfida, ammesso e non concesso che sia una sfida sincera.

Ora l’occidente si trova spiazzato dalle ultime mosse saudite, così spiazzato da arrivare persino a criticarle invece di apprezzarle. La nuova politica saudita rovina i piani europei di un avvicinamento all’Iran e invece di aiutare Mohammed bin Salman ad attuarle, la politica europea cerca di affossarle, non perché non ci creda ma perché strategicamente l’Iran viene giudicato “più importante” dell’Arabia Saudita. Non vedono quanto sia difficile per Mohammed bin Salman andare contro l’estremismo islamico e contro mezzo mondo musulmano. Non è una mossa intelligente quella che stanno facendo gli europei perché se veramente MBS dovesse riuscire nella sua missione i primi a risentirne sarebbero proprio gli estremisti islamici europei, con la loro rete di moschee e centri islamici finanziate dal denaro wahhabita e alimentate da quella ideologia così estrema. E allora perché non provare a credere a Mohammed bin Salman? In fondo cosa abbiamo da perdere?

Franco Londei

Esperto di Diritti Umani, Diritto internazionale e cooperazione allo sviluppo. Per molti anni ha seguito gli italiani incarcerati o sequestrati all’estero. Fondatore di Rights Reporter

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