Chi se la ricorda la formula “terra in cambio di pace”? Fu per lungo tempo un mantra delle trattative di pace tra israeliani e palestinesi tanto che in Israele molti si convinsero che fosse l’unica formula valida per raggiungere la pace o quanto meno mantenere equilibrio nella regione.

Poi arrivarono il gran rifiuto alla proposta israeliana che prevedeva la cessione ai palestinesi del 95% della Cisgiordania e le conseguenze del ritiro dalla Striscia di Gaza a dimostrare che quella formula che sarebbe andata bene ovunque, per i palestinesi non era abbastanza equa perché in fondo a loro della terra non importa nulla. Il vero ruolo dei palestinesi, quello per il quale sono stati creati dal nulla, è quello di essere una spina nel fianco di Israele non quello di creare uno Stato Palestinese come ci vorrebbero far credere. Se così fosse lo avrebbero creato da un bel po’.

Caduta miseramente per manifesta inconsistenza la formula “terra in cambio di pace” i cari palestinesi sono andata avanti per anni blaterando contro ogni decisione israeliana, ogni insediamento e ogni piano di costruzione nei territori contesi (non occupati si badi bene), che sono rimasti contesi solo per volere palestinese ma che tali sono e che quindi sono soggetti all’uso che chi li governa ritiene di farne. Non è tanto la paura che gli israeliani portino via lembi di terra al fantomatico futuro Stato palestinese ad alimentare la litania araba, abbiamo capito che della terra non gliene importa nulla, quanto piuttosto il rispetto del ruolo di “spina nel fianco” di Israele. E tutto sommato quegli insediamenti fanno pure comodo ai palestinesi, così che possano continuare a lamentarsi del fatto che la pace sia irraggiungibile a causa della “occupazione israeliana” e appunto degli insediamenti. Ma in fondo, alla fine dei conti, a tutti va bene così. I palestinesi si lamentano un po’, qualcuno gli allunga qualche milione di dollari, gli israeliani costruiscono lo stesso e la storia va avanti. Fino ad oggi.

E già, fino ad oggi perché la minaccia del Presidente Trump di tagliare gli aiuti ai palestinesi ha scombussolato tutto, tanto da preoccupare, secondo indiscrezioni, anche Netanyahu il quale starebbe cercando una formula per “mitizzare” l’impatto soprattutto a Gaza.

I palestinesi possono sorvolare sulla terra, far finta di sbraitare per gli insediamenti e nel frattempo continuare come se niente fosse a usufruire dei servizi israeliani che altrimenti, nel caso fossero uno Stato, non avrebbero. Ma sui soldi non si scherza. Se ai palestinesi tagliate i soldi il rischio di una loro rivolta seria si fa più concreto. Altro che Gerusalemme capitale di Israele, altro che terra in cambio di pace, altro che terza intifada. I soldi sono il prezzo della pace, i soldi mantengono il fragile equilibrio tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese, i soldi sono alla base del fantomatico accordo di riconciliazione tra Al-Fatah e Hamas. Se mancano i soldi salta tutto.

Le voci sui timori di Netanyahu sul fatto che nel caso gli USA tagliano i fondi alla UNRWA la situazione di Gaza potrebbe esplodere non sono del tutto infondate, come non sono infondate le voci sulle sue preoccupazioni di tagli ai fondi destinati alle forze di sicurezza della ANP che operano in Giudea e Samaria. Da anni non ci sono trattative di pace, checché ne dicano i sostenitori dei colloqui tra israeliani e palestinesi. Sono i soldi elargiti ai palestinesi a tenere la situazione relativamente sotto controllo sia a Gaza che in Giudea e Samaria. Non esistono fantomatici piani di pace che prevedono chissà quali concessioni e riconoscimenti, non è questo che interessa ai palestinesi. A loro interessa unicamente mantenere l’attuale livello di aiuti economici, mantenere intatto il loro business e il loro ruolo, quello per il quale sono stati creati.

E allora perché non parlare apertamente di “soldi in cambio di pace” invece di continuare a cercare improbabili collegamenti storici con il fantomatico popolo palestinese e di parlare di restituzione di terre mai appartenute storicamente a questo popolo inventato? Non c’è trattativa di pace che tenga, sono i soldi a mantenere il fragile equilibrio nella regione. Il Presidente Trump non ne vuole più dare a chi, come dice lui, prende i soldi americani senza restituire nessun tipo di rispetto. E ha ragione. Ha anche il merito non da poco di aver finalmente smascherato le vere ragioni dell’esistenza palestinese, non certamente legate alla nascita di un fantomatico Stato Palestinese ma unicamente funzionali a mantenere in vita un business più che una causa.

Chiudiamola qui questa storia, Netanyahu metta via le sue preoccupazione (se veramente ne ha), smettiamola di cedere ai ricatti palestinesi. Tagliare i fondi ai palestinesi vuol dire tagliare la testa al toro, vuol dire togliere l’unica loro ragione d’esistere o, come direbbe la Mogherini, di (r)esistere. Chissà che senza soldi i palestinesi non si decidano veramente a scegliersi una leadership finalmente all’altezza del suo ruolo e che non pensi solo a come rimpinguare i conti svizzeri e ad alimentare l’enorme business chiamato “causa palestinese”.