Israele: boicottaggio UE – 60.000 famiglie palestinesi sul lastrico

27 Luglio 2013

La recente decisione dell’Unione Europea di boicottare i prodotti israeliani provenienti dalla West Bank e da Gerusalemme Est, una decisione fortemente voluta da un manipolo di pacivendoli guidato da Catherine Ashton, più che danneggiare Israele rischia seriamente di gettare sul lastrico una grandissima quantità di famiglie palestinesi.

Già al varo della disposizione anche alcuni dirigenti palestinesi avevano espresso perplessità in quanto avrebbe colpito un gran numero di famiglie palestinesi che lavorano nelle aziende in Giudea, Samaria, Golan e Gerusalemme Est o che lavorano in Palestina per le aziende israeliane (il cosiddetto indotto). Tuttavia in un primo momento non erano ben chiari i numeri di questo vero e proprio disastro. Così abbiamo deciso di approfondire la questione andando direttamente alle fonti che nella fattispecie sono il Ministero del Lavoro della ANP (Autorità Nazionale Palestinese), quello dello Stato di Israele, l’ufficio che si occupa di fornire ai palestinesi i permessi di ingresso per lavorare in territorio israeliano e infine il Ministero dell’Economia della ANP.

Partiamo proprio da quest’ultimo perché in qualche modo ci da la possibilità di capire quali sono le entrate che mediamente un lavoratore palestinese che opera in aziende israeliane riesce a introdurre nel sistema economico palestinese. Un lavoratore palestinese che opera in aziende israeliane riesce a introdurre nel sistema economico palestinese almeno il 120% in più rispetto a un lavoratore che opera in Palestina. Questo perché le aziende israeliane pagano molto meglio rispetto a quelle palestinesi. Questo fatto ha consentito al sistema palestinese di crescere negli ultimi anni a velocità vertiginosa, con un sostanziale aumento dei consumi  dovuto alla maggiore disponibilità di denaro di un gran numero di famiglie che il Ministero dell’Economia della ANP stima in circa 18.000 con una forza lavoro di circa 30.000 (29.746) unità distribuite principalmente nei settori agricolo ed edilizio. A questi va aggiunto l’indotto, cioè quelle aziende palestinesi che lavorano per aziende israeliane di cui nessuno parla ma che invece rappresentano una della più importanti voci economiche della Palestina. Qui i numeri sono addirittura maggiori e si stima che le famiglie che dipendono da questo lavoro siano circa 22.000 per una forza lavoro di circa 42.000 unità. Anche in questo caso gli operai percepiscono uno stipendio molto maggiore rispetto alla media palestinese anche se non arriva ai livelli di quelli pagati dalle aziende israeliane.

Questi dati vengono sostanzialmente confermati sia dal Ministero delle Finanze israeliano (che rilascia i permessi di lavoro in Israele) che da quello della ANP il quale però, a differenza di quello israeliano, tiene fortemente conto dell’indotto in quanto fondamentale per il sistema economico palestinese. Addirittura i dati dell’indotto sarebbero in difetto perché molte famiglie non lavorano regolarmente e in molti casi si tratta di nuclei famigliari dediti all’agricoltura che vendono i propri prodotti a ditte di trasformazione israeliane. Secondo un funzionario della ANP tra lavoratori regolari in Israele, in Palestina, lavoratori dell’indotto e lavoratori irregolari, le famiglie palestinesi interessate da questo boicottaggio sarebbero oltre 60.000 per un totale di circa 75.000 unità lavorative.

«Siamo di fronte a un potenziale collasso dell’economia di mercato palestinese» – ci dice il funzionario della ANP il quale aggiunge che – «al di la della retorica, questo provvedimento danneggia molto di più la Palestina di quanto danneggi Israele». In realtà i dati sono inclementi. Il boicottaggio dei prodotti israeliani della Giudea e Samaria, di Gerusalemme Est e del Golan porterà al licenziamento di circa 30.000 lavoratori palestinesi che lavorano direttamente nelle aziende israeliane interessate dal provvedimento dell’Unione Europea. A questi si aggiungono gli oltre 42.000 dell’indotto e un numero indefinito di agricoltori che vendono i proprio prodotti ad aziende di trasformazione israeliane. Altro che collasso. In pochi mesi le entrate finanziarie in Palestina crolleranno con conseguenze devastanti per il potere d’acquisto e quindi per tutta l’economia palestinese.

Se era questo che voleva l’Europa, cioè se voleva bloccare l’economia palestinese per renderla ancora schiava degli aiuti umanitari, allora l’obbiettivo sarà sicuramente raggiunto. E non è un caso che le prime a gioire di questa scellerata scelta europea siano state proprio le centinaia di Ong che operano in Palestina. Stavano vedendo la loro gallina dalle uova doro sfuggirgli sotto il naso, con questa scelta invece si torna indietro di 30 anni. Non c’è che dire, proprio una scelta azzeccata quella europea.

Noemi Cabitza

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